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Stival Lara

Sopravvivere

Il tuo testo

“29 maggio 1917. Ho appena concluso il turno di guardia. Sono in trincea
da circa due settimane e mi sento stanco e affamato. Ma ormai tutti lo
sono. Ci danno il rancio due volte al giorno, se va bene. Il pasto prevede
una brodaglia e un pezzo di pane raffermo. Nient’altro. In questo inferno
l’unico conforto mi deriva dalle parole scambiate con Mario.
Ricordo il giorno in cui l’ho incontrato: ero appena arrivato e, in preda alla
paura, cercavo il sostegno degli altri soldati. Nessuno però mi dava retta:
vedevo che tutti stavano in silenzio e alcuni intanto piangevano… Solo
Mario, dopo avermi guardato con i suoi profondi occhi marroni, pieni di
dolore e insieme di coraggio, mi aveva offerto il suo posto per sedermi e
aveva iniziato a parlarmi, spiegandomi la vita di trincea, che lui aveva
ormai imparato a conoscere. Era iniziata così la nostra amicizia: in quel
momento avevo capito che Mario era una persona generosa, una persona
che non mi avrebbe lasciato mai solo nei momenti più brutti, una persona
che sarebbe rimasta sempre nel mio cuore.
Tengo nel taschino della giacca militare una foto mal conservata della mia
famiglia, sperando di poterla rivedere di nuovo, un giorno. Mi manca così
tanto! All’arrivo della tanto temuta cartolina non avevo potuto far altro
che prepararmi e partire assieme a migliaia di altri uomini mai visti prima,
che avevano avuto lo stesso ordine.
Scrivo spesso ai miei cari per sapere come stanno e per rassicurarli sulla
mia salute. Ma non posso di certo descrivere le pessime condizioni in cui
vivo: sarebbe un tormento per loro.
La situazione attorno a me è catastrofica: molti miei compagni si ribellano
e disobbediscono agli ordini dei superiori, altri scappano e, nei casi più
gravi, alcuni si feriscono da soli. Tutti questi soldati, se scoperti, vengono
fucilati. Talvolta dormiamo tra i cadaveri dei nostri amici e compagni che
hanno combattuto fino all’ultimo prima di morire. Altri, fra quelli che non
ce l’hanno fatta, rimangono invece tra le due trincee, in quella che è
chiamata “terra di nessuno”.

Alle volte arrivano piogge di granate, si sentono spari e il comandante
allora ci sprona ad andare avanti e noi corriamo e attacchiamo il nemico;
molti sanno che moriranno con un colpo di fucile o incastrati nel filo
spinato o nelle trappole. Tutti speriamo di sopravvivere, ma le probabilità
sono poche. E io davvero credo di essere un miracolato.
Ricordo ancora la mattina del 16 maggio, quando una raffica di spari ha
squarciato l’aria. Io, col terrore negli occhi perché non ancora abituato a
tutto questo, ho rivolto lo sguardo verso il comandante che urlava di
combattere per l’Italia, mentre molti compagni giacevano a terra
sofferenti con il viso rivolto al cielo. Al grido “Viva l’Italia!”, come
ridestatomi, ho imbracciato le armi. Ho iniziato a correre e a sparare e in
quella confusione molti sono caduti a terra. Il soldato vicino a me è stato
colpito alla testa dalla mitragliatrice e quando mi sono voltato di scatto
per vederlo, perdeva sangue e gemeva; si sentivano spari, uomini che
urlavano, bombe che esplodevano. In quel momento sono stato assalito
dallo sconforto perché sapevo che non sarei riuscito a sopravvivere e non
avrei mai più rivisto la mia famiglia, la mia terra; non avrei più fatto le
cose che mi piacevano. Nella mente continuavano a rincorrersi le parole
dei comandanti: “Siate orgogliosi di combattere per la patria, sull’Isonzo!”
E io che non volevo nemmeno venire in guerra…
Ad un tratto una fitta lancinante: un proiettile mi aveva colpito la gamba.
Sono caduto a terra gemendo e ho visto la grande ferita e il proiettile
conficcato nella coscia. Per la paura e il dolore mi si stavano chiudendo gli
occhi. Allora mi sono detto “No! No! Non chiudere gli occhi adesso! Pensa
alla tua famiglia!” Ma non ci sono riuscito, le palpebre erano troppo
pesanti. In quel momento ho sentito l’orribile suono della guerra: le
bombe, i colpi della mitragliatrice, i proiettili, i soldati che urlavano… e
dopo non ho sentito più nulla. Ho visto i miei cari che mi guardavano
increduli e mi abbracciavano e io…io ero così felice di essere tornato a
casa…! Ma non era così. Quando mi sono svegliato mi sono reso conto di
essere ferito, ma vivo! Mentre mi trasportavano in infermeria ho visto la
distruzione totale: decine di uomini che non erano stati fortunati come
me e che non ce l’avevano fatta. E proprio in mezzo a quei corpi ho

riconosciuto il viso del mio amico Mario a cui avevo voluto bene fino
all’ultimo. Ho visto il suo corpo a terra, pallido, e un proiettile conficcato
nel petto dove c’era già sangue coagulato. In quel momento ho urlato e
ho pianto. Non volevo più rimanere lì perché avevo perso l’unico che mi
era stato vicino, il mio più grande amico e compagno. Dalla rabbia ho
tentato di scendere dalla barella ma non ci sono riuscito a causa della
ferita; i due soldati che mi stavano trasportando hanno pensato fossi
diventato pazzo! Arrivato al campo c’era ad aspettarmi un medico; dietro
alla baracca per le fasciature c’erano i corpi di soldati feriti che avevano
avuto un’infezione troppo grande per continuare a vivere. A quel punto
mi sono spaventato; avevo seriamente paura di morire e in quel
momento avrei voluto essere vicino ai miei cari. Il dottore, dopo avermi
visitato, mi ha tranquillizzato dicendomi che la ferita non era la più grave
che avesse visto ma che doveva operarmi immediatamente e fasciare la
gamba. Mentre guardavo con orrore il proiettile, il dottore mi ha iniettato
qualcosa e, in breve tempo, ho perso i sensi. Mi hanno condotto fuori
dall’infermeria che era quasi mezzanotte. Stava per arrivare un altro
giorno, un’altra lotta per la sopravvivenza, uguale a quella che avevo
vissuto fino a quel momento.
Ecco, tutto tornava come prima…O forse no…
Sono andato a rifugiarmi nel mio angolino e, ripensando al mio compagno
morto e alle tante giovani vite spezzate senza motivo, ho provato
un’enorme rabbia verso la guerra, la più inutile delle invenzioni umane,
che nulla costruisce ma tutto distrugge”.

Alzo gli occhi dai fogli che tengo fra le mani. Inizio a piangere
silenziosamente per quell’amico del mio bisnonno, morto in un modo così
atroce. Fisso il vuoto, mi guardo attorno e non vedo più solo scatoloni e
polvere, ma ricordi e avventure, speranze e sogni infranti. Sono salito in
soffitta per fuggire dalla noia della quarantena e, rovistando in un baule
molto vecchio, ho trovato alcune pagine di diario che il mio bisnonno
aveva scritto al fronte. Leggendo questi testi, si avvertono distintamente
le emozioni del giovane soldato che scriveva: il suo sconforto, la sua
rabbia, la paura, la nostalgia. Continuo a guardare i fogli con le lacrime
agli occhi, pensando da un lato a quanto egli debba aver sofferto e,

dall’altro, a come questi ultimi anni in qualche modo siano stati per noi
simili al periodo descritto in questi fogli sgualciti. Improvvisamente sento
il mio bisnonno più vicino a me, perché anch’io sto combattendo una
guerra, seppur con armi diverse e contro un nemico che né possiamo
sentire né toccare né percepire. Un nemico che fino ad ora ha causato
migliaia di vittime. In questo caso però l’umanità non si è divisa, ma si è
unita per sconfiggere un nemico comune. Credo che il mio bisnonno ne
sarebbe felice, perché direbbe che l’uomo è cambiato e, per una volta,
non ha perso tempo a lottare contro i suoi simili ma si è alleato con loro
ed è diventato più forte. “Forse” direbbe “le persone sono migliorate e
hanno capito che combattere le une contro le altre non serve a nulla, solo
a distruggere vite e a perdere tempo prezioso”.




Envoyé: 20:56 Sat, 11 December 2021 par: Stival Lara